Anello Torre d'Ubaga
Borghetto D'Arroscia
Quello che vi proponiamo in queste pagine è sicuramente un itinerario interessante sotto l’aspetto storico e naturalistico, ma che fonda le sue radici anche nella misticità proveniente dai popoli che abitarono queste zone lungo il corso dei millenni. Ci troviamo ad Ubàga, frazione del comune di Borghetto d'Arroscia, il cui toponimo fa riferimento alla geo localizzazione del borgo che attualmente sorge sul lato in ombra dei monti Sprandèga, Boschetto e Riondo.
Nell'idioma Ligure pre-latino, l’ "Ubagu" designava infatti le località alpestri, fredde, scoscese, selvose, esposte a settentrione e del tutto inospitali, la cui esistenza affonda culturalmente nelle primitive tribù di pastori e agricoltori che, per circa due millenni, avevano dato vita al culto del monte Bego.
Quando parliamo di preistoria, i confini regionali attualmente conosciuti servono solo a confondere l’idea che abbiamo in testa della conformazione della Liguria; certo è che le popolazioni nomadi dei Liguri vissute tra la fine del neolitico e l’età dei metalli occupavano anche gran parte del territorio compreso tra la Valle delle Meraviglie e la Val Fontanalba di compendio delle Alpi Marittime, nel massiccio del Mercantour, nell'attuale Francia delle Alpi dell'Alta Provenza.
L’importante nodo montuoso del Bego, dove probabilmente prese vita il culto della divinità Baigorix, resta alla base delle testimonianze alle quali si attribuisce il risveglio della coscienza etico-religiosa dell’homo sapiens rappresentando la prima vera rivoluzione culturale nella preistoria ligure.
L’uomo neolitico si trasformò pian piano da cacciatore nomade in pastore e agricoltore sedentario, aggregandosi in comunità stabili e organizzate, modellando finalmente la sua esistenza secondo i ritmi della natura.
Come accade anche oggigiorno, le pratiche agricole erano soggette ad una serie di cicli continui, semina/raccolto, nascita/morte, altamente influenzate dalle variazioni meteorologiche e dal clima.
Un’evoluzione ulteriormente implementata dall’osservazione del cielo e del cosmo che fece accrescere nell’uomo primitivo il primo vero sentimento religioso.
La terra venne finalmente considerata come la Grande Madre di tutti gli esseri viventi, in grado di produrre i beni essenziali per il sostentamento della vita, associando quel ruolo all’esistenza diretta di un dio signore del tuono, del fulmine e dell’acqua, che i pastori liguri identificarono nel monte Bego, costantemente avvolto da nubi, neve e tempeste.
Un’energia vitale sempre in movimento quindi, in grado di scatenare tutta la sua potenza verso il suolo, capace di decidere oltremodo le sorti di intere popolazioni, delineando il sottile confine tra la vita e la morte: nasce Baigorix, rappresentante dell’unione sacra tra la potenza divina e la Madre Terra.
La partenza del nostro percorso avviene nei pressi della chiesa intitolata a Sant’Antonio Abate in frazione Ubàga, dove iniziamo a trovare la segnaletica di color viola inerente l’anello che quest’oggi vogliamo percorrere.
Prendiamo quindi la nostra sinistra dove inizia il sentiero in direzione San Bernardo di Ubàga; l’ascesa è dolce e si sviluppa prevalentemente tra boschi secolari di carpini, castagni e faggi. Come dicevamo nella premessa, un tempo queste zone erano tutte modellate a servizio delle colture di ortaggi e grano e, negli spiazzi più agevoli, venivano costruite carbonaie di notevoli dimensioni in grado di trasformare la legna autoctona in carbone vegetale.
I carbonai tagliavano gli alberi, generalmente nei periodi di luna calante, cercando di mantenere uniforme la boscosità delle zone interessate dal disboscamento, senza deturpare più di tanto l’ambiente circostante, anche se i segni che restano di quell’antica attività sono ancora ben evidenti: spazi circolari, terra particolarmente annerita, evidenze di pietre o massi che delimitavano la carbonaia, e così via.
Arriviamo quindi in brevissimo tempo al cospetto della cappella sconsacrata di San Bernardo, ormai abbandonata da decenni dove, con una piccola deviazione, è possibile raggiungere un punto panoramico che si affaccia su buona parte della Valle Arroscia.
Concessa la deviazione, ritorniamo sui nostri passi proseguendo oltre la chiesetta e mantenendo il passo sul sentiero di sinistra, in direzione Torre d’Ubàga. Qui inizieremo a salire costantemente per circa 250 mt di dislivello positivo, raggiungendo in circa un’ora scarsa la meta prefissata.
La torre d’avvistamento costruita dai marchesi di Clavesana intorno all’anno Mille, che pare sia stata successivamente distrutta da un incendio appiccato dalla popolazione stanca dei soprusi dei loro feudatari, è oggi ridotta ad un cumulo di macerie tenute assieme da un terrapieno a sua volta sormontato da un cartello ligneo con la dicitura Torre d’Ubàga, un paio di panchine panoramiche ed un pennone con una banderuola nera.
La posizione strategica del sito sul quale venne edificata la torre di avvistamento si erge prepotente separando la valle Arroscia dalla val Lerrone. Questa elevazione di circa 820 mt slm, è sempre stata identificata dalla popolazione locale come "Castello di Ubaga", poiché sulla sua sommità sorgeva un castellaro preistorico, probabilmente distrutto nel 202 a.C. dal console romano Appio Claudio.Testimonianze scritte rendono verosimile il fatto che il castellaro di Ubaga possa rappresentare uno dei primi nuclei abitativi di tutta l'Alta Valle Arroscia con particolare riferimento all’età neolitica, epoca in cui compaiono in Liguria queste costruzioni fortificate, o nel periodo del rame, quando gli stanziamenti montani subirono un forte incremento nel Ponente ligure.
Sulle rovine del castellaro venne eretta, più o meno attorno al Duecento dell’anno Mille, la Torre di avvistamento che riconosciamo oggi.
Da qui la vista è spettacolare, lo sguardo volge in breve tempo dal passo del Ginestro al monte Frontè, dal Passo della Mezzaluna al colle d’Oggia. Ovviamente distinguiamo chiaramente il mare e l’orizzonte.
La realtà che ancora oggi ci si palesa davanti agli occhi è quella che mostra le evidenti caratteristiche della Liguria più inospitale, difficile da domare, solitaria, fatta di gole scoscese e crinali fortemente boscosi.
Pensare che allora come oggi, in questi luoghi lontani dal tempo, uomini e donne forti potessero sopravvivere egregiamente potendo contare solo sulle proprie forze, rende lustro e onore alle genti di queste parti.
L’Ubago torna quindi ancora come idioma proprio di queste zone, nonostante si possa incontrarlo anche in altre località liguri e affini, come il “Bosco dell’Ubago” nel comune di Bajardo, il “Vallon de l’Ubaguet” nel comprensorio di Saorge, in val Roja e ancora in Val Negrone nei pressi di Upega.
Per approfondire meglio questo toponimo ricorrente, ci affidiamo al prezioso sapere del nostro ormai amico Giovanni Pazzano, che da queste parti iniziò il suo lavoro come cartografo«Come sapete il mio lavoro si basa sulla costante ricerca dei toponimi propri di una zona, i quali raccontano perfettamente ogni aspetto del territorio e delle vicende che nel tempo ne hanno segnato inequivocabilmente la storia. Come ben avete detto voi in apertura di questo articolo, ubago nel dialetto della Liguria di Ponente indica località selvose, esposte a settentrione.
Significa impervio, opaco, oscuro.
E’ il perfetto contrario di abrigu, luogo soleggiato, armonioso, prospero.
Ubago vuol dire anche, nascosto, selvaggio, misterioso, profondo.
L’aprico e l’ubago, il sole e la luna, la riviera e l’entroterra, il mare e la montagna, sono questi alcuni degli aspetti indissolubili del nostro paesaggio, sia esso di Levante o di Ponente.
Un paesaggio contenitore di miti, leggende, metafore, e quello dell’ubago che si è incontrato spesso con la poetica di Italo Calvino identificandola come il luogo proprio della sua scrittura, come riporta l’estratto de “La Strada di San Giovanni”, menzionato qui sopra.
Le popolazioni degli antichi Liguri erano alquanto affini e sensibili alla stretta correlazione che accomuna le caratteristiche territoriali a quelle spirituali e divinatorie. Ed è proprio in relazione ai toponimi come Ubagu, Baigorix, Spéndega, Giassi e molti altri ancora che sono nate le figure simboliche delle “Maschere di Ubàga“, un centinaio di opere eseguite per mano di numerosi artisti italiani ed internazionali chiamati da Franco Dante Tiglio a interpretare le forze della natura cercando di donare loro aspetti umani e misteriosi.
Oggi le opere fanno parte di una mostra permanente visitabile presso la sede del museo del territorio della valle Arroscia, sito nello spazio aggregativo di Piazza Borelli a Pieve di Teco. Dopo aver scritto un pensiero sul libro di vetta presente in loco, lasciamo alle nostre spalle questo luogo strategico al confine tra la provincia di Savona e quella di Imperia, immaginando ancora come panorami così ben definiti dalle vette montane siano stati d’ispirazione alla nascita del mito e dei riti propiziatori delle maschere di Ubàga.
Consultando la mappa dei toponimi redatta da Giovanni riguardante i territori comprensoriali del Bosco Nero, saltano all’occhio alcuni nomi che ritroviamo poi nel museo delle Maschere di Ubàga, come per esempio Casarix e Giassi.Il percorso, dopo un tratto iniziale a mezzacosta praticamente pianeggiante, inizia a scendere lungo una via prevalentemente caratterizzata dalla presenza di pietrisco. Numerose sono le deviazioni che consentono di articolare in modo differente l’itinerario, ma noi restiamo fedeli a quello pianificato giorni prima.
Trascorsi 5 km distribuiti su quasi due ore di marcia e percorsa una vecchia strada sterrata, dalla quale si intravede in lontananza il paese di Vellego, giungiamo su di uno spiazzo dove bisogna proseguire a destra in direzione Montecalvo. Lungo il percorso incontreremo in sequenza una croce votiva utilizzata in passato per il rito della Via Crucis “A Cruxetta”, e ancora la “Surgente Aiga Di Sunchi” - “Funtana de Ciappere”, da dove scattiamo una bella foto dell’abitato di Montecalvo.
Arrivati quindi ai piedi del lungo tratto scosceso seguiamo la via dedicata alle MTB per circa 200 metri che, transitando a lato di antichi lavatoi in pietra bianca, ci condurrà verso il paese. Il carruggio tipico fa da spartiacque alla via principale della borgata fino ad aprirsi su di un bellissimo punto panoramico nei pressi della cappella intitolata alla Madonna della Neve, nel rione di “Ca De La”.
Il collegamento alla principale piazza dove sorge la Chiesa di San Giovanni Battista è immediato e per noi un buon pretesto per farvi visita e per rifocillarci.
Dal sagrato antistante la chiesa di Montecalvo imbocchiamo la salita in cemento di fronte a noi, ritrovando la cartellonistica dell’anello Torre di Ubàga.
In cima alla salita bisogna fare molta attenzione a proseguire correttamente sul sentiero giusto, in quanto la freccia riportante la scritta Ubàga è ben nascosta tra le fronde degli alberi. Tenendo la sinistra sul sentierino inizia un tratto in completa ombra, caratterizzato da lievi saliscendi, fino al raggiungimento di un ulteriore croce lignea alta circa un metro e mezzo.
A questo punto ci vorranno ancora una manciata di minuti prima di ritornare nei pressi della cappella di San Bernardo, dove dovremo ripercorrere in parte lo stesso sentiero dell’andata che ci permetterà di collegarci con il parcheggio dove abbiamo lasciato l’auto, nei pressi del piccolo cimitero.
Un percorso a dir poco introspettivo, come dicevamo all’inizio dell’articolo, capace di regalare al trekkinatore uno o più momenti riflessivi sui quali potersi soffermare per comprendere al meglio come queste zone venissero addomesticate dalle tribù Liguri di un tempo e come nulla, a distanza di millenni, abbia subito grossi e radicali cambiamenti.
Liguria indissolubile e aspra, dalla corteccia più dura e dall’animo sensibile, d’abrigu e d’ubagu, fortemente affascinante, ora come allora.È un itinerario enogastronomico lungo i sapori della transumanza, là dove «la montagna è ammantata di gente e animali», come scriveva Francesco Biamonti raccontando le Alpi Marittime, oggi diventate Alpi Liguri. Un territorio aspro, dove regna da sempre la pecora brigasca, che deve il suo nome al toponimo che identifica il paese di Briga Alta in provincia di Cuneo e ritorna in La Brigue, paese francese della Val Roya. Un itinerario di cultura, tradizioni, freddo, sudore, sapori, quelli della Cucina Bianca, fatta di farinacei, latticini e ortaggi di montagna, poco colorati come le patate, i porri, l’aglio di Vessalico, le rape, il brusso e la toma. Si sviluppa tra Liguria e Piemonte, Italia e Francia, sui sentieri senza frontiere percorsi della transumanza e del contrabbando, e propone specialità come l’ajè, il flan di scorzonera, gli «streppa e caccia là», pasta preparata in alpeggio, semplice acqua e farina, strappata a pezzetti e gettata direttamente nell’acqua bollente con rape e foglie di cavolo e condita col brusso.
La cucina mediterranea appare distante, l’olio è un bene prezioso da usare con parsimonia: “cu u truncu” (la dose si otteneva intingendo un rametto nella bottiglia). La strada della Cucina Bianca costituisce un percorso attraverso i territori montani attorno al Monte Saccarello, il monte più alto della Liguria, dalle cui rocce nasce l’Arroscia.
Tanti i piatti nati dalla povertà nelle malghe, oggi riscoperti e valorizzati nelle trattorie e negli agriturismi. A cominciare dai bastardui, una sorta di gnocchetti nel cui impasto vengono aggiunte verdure sminuzzate e conditi con panna e porri. Il bernardun, invece, è il minestrone avanzato che farcisce una sottile base di pasta da cuocere al forno.
E poi la brussusa, fatta con gli avanzi dell’impasto del pane con ripieno di aglio o brusso, cotta nel forno a legna. Le minestre e le verdure avanzate, erano aggiunte alla base delle pastelle di farina e uova per fare i friscioi salati. Per i bambini, invece, l’impasto prevedeva fette sottili di mele con l’aggiunta di zucchero, un dolce povero, destinato alle feste.
Nomi diversi, stessa “minestra”: i minietti, molto digeribili, erano riservatiai convalescenti, alle puerpere, ai bambini o agli anziani.
In un brodo insaporito dall’aglio, con patate tagliate a dadini, al momento del bollore, vengono gettati piccoli grumi di farina lavorati con acqua. Se fatti con farina di castagne, prendono il nome di bugaeli.
La farina di piselli usciva dal mulino mescolata alla farina del grano, l’ideale per una “panissa”. Tagliata a fette, veniva consumata con il latte o il siero della ricotta, “becca” a colazione, condita con olio, aceto, cipolle e aglio tritato per pranzo e cena. Le patate in tà foglia altro non è che uno sformato di patate disposte in una teglia (la foglia) infarinata con latte e porri.
Le raviore, invece, sono considerate il piatto di Montegrosso Pian Latte. Sono fagottini ripieni di erbe selvatiche tra cui l’erba amara, l’erba luisa, gli spinaci selvatici, menta, ortiche e via dicendo. Tradizionalmente erano conditi con acqua di cottura, poco burro e formaggio pecorino. A Cosio d’Arroscia le raviore, di dimensioni più grandi, sono cotte sulla piastra del forno.
I sugeli, evoluzione degli streppa e caccia là, sono acqua e farina, lavorata a gnocchetti con il tipico “corpu de diu”.
Il condimento è una salsa a base di brusso. Le Turle, invece, sono grossi ravioli di patate e menta, conditi con panna di latte aggiunta ad un soffritto di aglio (o porro) e nocciole tostate. La turta de patate ha un ripieno di patate, tagliate o schiacciate, “sciura de laite”, cipolla e, a seconda delle stagioni, verza, porro, menta o altre verdure. Simili come ingredienti alla torta di patate sono i turtelli, piccole torte da una porzione, ripieni di patate, molto spesso accompagnati da altri ortaggi come i cavoli. Tre nomi per tre dolci simili, turui, cubaite o cuppette, nient’altro che sottili cialde bianche, fatte con acqua e farina, farcite con miele rosolato e gherigli misti.
Cosa si beve con i piatti della Cucina Bianca?
Ormeasco, naturalmente, almeno dal 1299 . . .
Route in numbers
h 4:00
Journey
7,90 Km
Route Duration
420 mt
Difference in altitude